Arte del Combattimento, ossia Ars dimicandi

Ludi Circensis - I Gladiatori Gladiator… Gladiatore. Vale a dire, combattente con il gladius, la spada romana. In epoca repubblicana il loro equipaggiamento era pressoché quello usato in guerra, poiché si trattava di prigionieri di guerra, ma, da Augusto in poi, i combattenti vennero divisi in classi di gladiatori in base al tipo di combattimento e l’armamento si adeguò alla specialità.
Torino, (informazione.it - comunicati stampa - editoria e media)

 

Arte del Combattimento,   ossia  Ars dimicandi

 

munera  o Giochi gladiatori, costituivano una vera e propria industria dello spettacolo che metteva in  scena la morte, il sangue, ma anche il coraggio, l’eroismo,  l’ardimento, il valore.

Non s’improvvisava, ma si apprendeva attraverso l’Ars dimicandi, ossia, “l’Arte del combattimento”.

Se inizialmente la gladiatura ebbe carattere spontaneo e fu regolamentata solo da poche regole, in seguito e soprattutto durante l’Impero, si specializzò, attraverso la fondazione della scuola gladiatoria: il Ludus.

La più importante scuola gladiatoria fu il Ludus Magnus,  di Roma,   adiacente il Colosseo, ma, scuole di gran prestigio furono anche quelle di Capua e Pompei.

Ed ecco questa “industria” in piena attività.

Innanzitutto si annunciavano i giochi. Con programmi  trascritti sui  muri di case private, edifici pubblici e  perfino latrine e tombe, ma anche con i libelli munerari, volantini venduti per strada e da consultare durante gli spettacoli; in essi erano specificati la ricorrenza festiva, il nome del munerarius, cioè l’organizzatore dei giochi, quello del lanista, il proprietario della Scuola gladiatoria, i nomi  dei gladiatori, naturalmente e la loro specialità e ogni  altra informazione riguardante lo spettacolo.

Una  di   queste   informazioni    riguardava la coena

libera, ossia il grande banchetto offerto a tutti i gladiatori chiamati a combattere il giorno successivo… già questo era uno spettacolo nello spettacolo, come  risulta dal breve brano in calce.

Che la folla fosse appassionata di tali spettacoli fino all’eccesso, lo dimostra la grande partecipazione di pubblico alle esibizioni di lotta con armi di legno, che precedevano lo spettacolo vero e proprio.

In realtà, questa era la circostanza favorevole che induceva la gente, di ogni ceto sociale, a sperimentare  il rischio e l’ebbrezza dell’arena. I combattimenti veri e propri, quelli con armi vere, che solo in quel momento venivano consegnate ai combattenti, iniziavano solamente  dopo l’esibizione del corteo degli atleti nell’arena  e la dedica dei giochi, mentre gli araldi annunciavano la formazione delle coppie di combattenti e la loro specialità.

Finalmente  i combattimenti avevano inizio e con i combattimenti  aveva inizio anche il tifo parossistico della folla: scommesse, urla, imprecazioni:

Verbera et iugula”,  (colpisci e sgozza) gridavano, quando un gladiatore cadeva.

Hoc Habet.”  (Le prende… adesso le prende) gridavano quando, invece, barcollava.

Quando, invece, il gladiatore si dichiarava vinto e cedeva le armi, sollevava la mano sinistra per chiedere la grazia e aspettava il verdetto:

Jugola”, gridava la folla, ossia “scannalo”   oppure

Missum, ossia  “libero”.

Il lanista, però, il proprietario del Ludus Gladiatorius, cui ogni atleta costava un vero patrimonio in mantenimento ed allenamento, non  avrebbe permesso  che fosse sacrificato con facilità. Per di più, se un atleta mostrava coraggio e sprezzo per la morte, se lo spettacolo da lui offerto era stato esaltante ed eroico, oltre alla palma della vittoria ed ai vassoi d’argento colmi di monete d’oro e altri doni preziosi, poteva anche vedersi lanciare nell’arena da Cesare,  la rudis,

la spada di legno della libertà.

Poteva anche presentarsi il caso, non raro, di due atleti

di pari valore; se il loro combattimento fosse risultato valoroso e soprattutto equilibrato, poteva esserci anche per loro non solo la palma del vincitore, ma anche la libertà.

 

 

I Combattimenti

 

 

Ogni atleta aveva un ruolo già stabilito, con armamento predisposto e predisposta scenografia, poiché lo scopo era  quello di divertire.

Ai romani piaceva l’accostamento degli opposti:  lo smilzo contro il robusto,  il leggero contro il pesante, ma in modo il più equilibrato possibile, in modo che l’uno non fosse avvantaggiato rispetto all’altro e così, le specialità di combattimento venivano studiate e perfezionate e poi esibite nell’arena.

Ed ecco che ad un Mirmillone dal fisico atletico e pesantemente armato, veniva opposto un Reziario agile, snello, ma armato del solo tridente; se il primo voleva avere ragione del secondo, doveva conservare ad ogni costo  le proprie energie, dosare la fatica e trattenere il poco ossigeno che gli arrivava dalla celata del  grande elmo calato sul capo.  

La tecnica vincente di combattimento del Reziario, invece, era quella di tener lontano il più possibile l’avversario con il tridente, per poi cercare di catturarlo, lanciandogli contro la rete o scagliargli contro lo stesso tridente.

Oltre al Mirmillone, al Reziario veniva spesso contrapposto un’altra figura: il Secutor.

Forte, imponente, pesantemente armato, difficile da contrastare, al Reziario non restava che agire d’astuzia, cosicché, egli finiva spesso per adottare una tattica assai scenografica che, all’inizio, il pubblico non apprezzava affatto, ma che, in seguito, divenne tra le  sue favorite. 

Di che cosa si trattava?

Se al Reziario, senza scudo né spada, occorrevano spazio e distanza per  lanciare tridente e rete, al suo avversario occorreva, invece, accorciare le distanze e pressarlo da vicino. Al  Reziario restava, dunque, una sola via di scampo: la fuga.  E quello faceva. Fuggiva.

Soprattutto all’inizio, questa tattica, non era molto apprezzata; più apprezzato lo scontro diretto. In seguito, però, quell’atto di difesa diventò azione scenografica: la fuga del reziario inseguito dal Secutore, tra urla d’entusiasmo della folla, ricordavano il più famoso duello della storia romana, quello tra i Curiazi e gli Orazi.  La salvezza del Secutor, diventato Inseguitore, stava nella capacità di inseguimento, oltre che nella potenza fisica, necessaria a sopportare  il peso delle armi e nello schivare il tridente dell’avversario in corsa. A patto che questi riuscisse  a distanziarlo.

 

Contrapposte erano anche le potenzialità del Provocator contro quelle del Mirmillone.  Durante la lotta, quest’ultimo si nascondeva dietro l’enorme scudo, esponendo solo testa e gambe, a loro volta protette e corazzate,  per  poi uscire allo scoperto ed attaccare l’avversario che aveva di fronte; scostava lo scudo solo per brevi attacchi con il gladio. Da questo punto di vista, il Mirmillone era per l'avversario una fortezza inespugnabile; l'unica possibilità, per l’avversario, era trovare il modo di attaccarlo lateralmente, dove era più vulnerabile.

Chi  erano   tutti quei   disgraziat i che,   a decine   e

centinaia,  morivano in giochi sanguinosi e sadici, per

il divertimento di una folla annoiata, assetata di sangue ed eccitata da piacere omicida? Per questo c’erano i condannati a morte, i prigionieri di guerra e gli  schiavi.

Non tutti i combattimenti, infatti, seguivano regole fisse ed equilibrate. Accanto agli scontri alla pari, vi erano i giochi, per così dire, “ad eliminazione diretta”. Si trattava dei Munera sine missione, che prevedevano la morte per tutti gli sconfitti, senza alcuna distinzione. Una vera strage.

Uno spettacolo simile, organizzato dal nonno di Nerone, aveva disgustato a tal punto Augusto, che,  con un Editto, decise di sopprimere tale barbaria; Claudio e Caligola, però, noti per la loro crudeltà, pensarono bene di ripristinarli.

Alla ricerca di emozioni più forti, sempre più Munera  non  ordinari, continuavano a comparire e ad appagare quell’inconfessato istinto assassino che  spingeva tutti verso le arene; giochi stupidi e crudeli, ferocia gratuita. Come lo spettacolo di mezzogiorno, che doveva essere solo un  intermezzo tra lo spettacolo del mattino e quello della sera e che invece, come ebbe a scrivere  Seneca :

“Non più finti combattimenti, ma veri e propri omicidi.”

Si trattava dell’Oplomachia, una lotta che non prevedeva vincitori, ma solo vinti. Si mettevano di fronte due uomini, l’uno era armato e l’altro inerme e destinato a soccombere. Appena questo avveniva, subentrava un altro lottatore che disarmava il vincitore e ne prendeva il posto, per soccombere  a sua volta nel combattimento successivo e… sempre con le parole di Seneca:

“Lo spettacolo è sospeso. Intanto non si stia  senza far niente, si sgozzi qualcuno.”

E ancora. Per riempire i tempi morti fra i vari spettacoli, si allestivano rievocazioni storiche e mitologiche, i cui attori erano destinati a morte certa. Morte spettacolare e crudele, tanto più apprezzata, quanto più fedele al mito. Ed ecco un disgraziato mascherato da Atteone, inseguito e sbranato dalle belve, o un infelice condannato ad impersonare Prometeo, legato ad un tronco e ridotto a pezzi da orsi. Ed erano proprio questi gli spettacoli che riscuotevano maggior successo, ebbe a scrivere ancora  Seneca:

“La morte è la tragica conclusione a cui i combattenti vanno incontro. Ma si dirà: costui è un brigante, un

assassino. Perché non è disposto a morire volentieri?”

Ladri, assassini, briganti… una garanzia di ordine  e sicurezza, ma anche di monito per il cittadino, questo genere di spettacolo cruente  e spietato. 

Assai diverso, invece, la reazione nei confronti dell’atleta vincitore. L’eroe, quello che scampava alla morte, che si copriva di ferite e di gloria… di fama. Proprio come gli atleti di oggigiorno: strapagati e vezzeggiati.  Vezzeggiati proprio da tutti, non solo da donne, anche da uomini  e soprattutto da fanciulle: “suspiria puellarum” li chiamavano, per le fiamme amorose che accendevano in loro. E non solo  nelle fanciulle. Anche tante matrone, che stazionavano davanti ai Ludus o assistevano (dietro lauto compenso)  agli  allenamenti.

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