L’AERONAUTICA ITALIANA NELLA GRANDE GUERRA

Conferenza del Gen. Basilio Di Martino alla 1^ Regione Aerea di Milano – marzo 2017.
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Conferenza del Gen. Basilio Di Martino alla 1^ Regione Aerea di Milano
L’AERONAUTICA ITALIANA NELLA GRANDE GUERRA

Per imperscrutabili ragioni, chi scrive la storia di Milano si dimentica che, nel periodo tra le due guerre, questa città è stata al vertice mondiale della tecnologia rappresentata dall’aviazione; e che lo Steve Jobs dell’epoca fu Giovanni Caproni, ingegnere, inventore e imprenditore, irredentista, conte di Taliedo nel Trentino, allora facente parte dell’impero austroungarico.

Questa figura straordinaria è stata citata nell’ambito delle commemorazioni del Centenario della Grande Guerra alla 1a Regione Aerea di Milano dal Gen. Isp. Basilio Di Martino nel corso di una intervista di Maurizio Cabona, dopo il saluto del Presidente dell’UNUCI di Milano Gen. B. Mario Sciuto.

Erano trascorsi appena otto anni dal primo goffo balzo del Flyer dei fratelli Wright quando l’Italia utilizzò per la prima volta nella storia il mezzo più pesante dell’aria nella guerra di Libia, 1911. Era nata l’aviazione militare, antesignana dell’aviazione civile.

L’ aviazione divenne rapidamente adulta con la grande prova della prima Guerra Mondiale. Di Martino ne ha percorso l’evoluzione con acuta conoscenza e passione: dai primi impieghi quale ricognizione tattica, osservatorio per indirizzare dall’alto le artiglierie e per segnalare fortificazioni e concentrazione di truppe, ai bombardamenti delle stesse per facilitare l’avanzata delle truppe di terra. Vennero codificate le tre componenti: ricognizione, bombardamento, caccia, che non erano ancora raggruppate in un corpo unico, la Regia Aeronautica nacque solo nel 1923 e si affiancò al Regio Esercito e alla Regia Marina.

Ancora una volta fu Caproni a individuarne l’ utilizzo strategico. Le sue officine produssero tra i più grandi bombardieri del mondo. Ma l’aviazione divenne anche strumento politico e di guerra psicologica con il lancio sul fronte e sul territorio nemico di volantini – oltre 60 milioni di copie in 643 missioni – di cui il volo su Vienna di D’Annunzio rappresentò l’apice. Si impose il concetto di dominio dell’aria che sarebbe stato risolutivo nell’ancora più atroce bagno di sangue della seconda Guerra Mondiale.

Aggiungiamo che, prima di essa, le industrie Caproni, le quali nel frattempo si erano diffuse nel mondo arrivando a contare più di 20 consociate in diversi Paesi, compresi gli Stati Uniti cui vendettero aerei e fornirono piloti istruttori, avevano conquistato un record dopo l’altro: il biplano CA73 il più grande aereo terrestre dal 1929 al 1934; il raid Roma-Mosca nel 1933; i record di altezza maschile, femminile, con idrovolanti negli anni tra il 1934 e 1939; il motoreattore (da non confondere con l’aereo a reazione) che conquistò nel 1941 il primato di velocità Roma-Milano.

In quegli anni le grandi trasvolate atlantiche – famosa quella di Italo Balbo – siglarono la supremazia del lavoro di gruppo sul valore del singolo (Baracca, Von Richthofen).

Ci si chiede quali possano essere state le ragioni della irrilevanza dell’aviazione italiana nella seconda guerra mondiale (dopo la sconfitta, ovviamente, non ci fu storia) a fronte delle nostre conquiste tecnologiche: la disorganizzazione presente nel nostro dna (se erano pronti i motori mancavano le fusoliere, le ali sarebbero giunte ancora dopo, per citare); la carenza di materie prime; la mancanza di una strategia.

Andammo alla battaglia d’Inghilterra con i biplani di vent’anni prima. Che si perdevano sulla Manica.

L’Arma più amata resta comunque nel cuore di tutti, meritevole di rispetto e di onore.
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