Una Protezione Civile partecipata 2.0

Tra burocrazia e impedimenti la Protezione Civile ancora ignora i Social Media
Roma, (informazione.it - comunicati stampa - politica e istituzioni) Se c’è una cosa che le recenti calamità naturali hanno messo in evidenza è l’inadeguatezza delle strutture pubbliche italiane a far fronte da sole ai cataclismi naturali. Specialmente gli Enti preposti alla cura del territorio si dimostrano in grave ritardo nel gestire situazioni d’emergenza. Abbiamo tutti negli occhi le immagini di Genova dopo l’ennesima esondazione del Bisagno di qualche giorno fa o la situazione drammatica di Parma in occasione dell’ultima alluvione. In entrambi gli eventi oltre alla pioggia sono “piovute” anche le critiche sulla gestione dell’emergenza da parte delle Istituzioni e soprattutto sulla Protezione Civile. Rabbia, disgusto, scoramento e tristezza sono alcuni degli stati d’animo più condivisi dalle persone sui social media. E se è vero che grazie alle moderne tecnologie è possibile per tutti sfogare la propria rabbia mettendo a nudo le mancanze delle Istituzioni nei confronti dei cittadini, allo stesso modo è possibile per le Istituzioni servirsi di questi mezzi per rendere un servizio alla popolazione. Dal giorno dell’alluvione (ma in realtà da diverso tempo il problema è di attualità) si è discusso molto dell’assenza completa e ingiustificata di Enti come la Protezione Civile dai Social Media.

In un mondo dove le reti mettono in relazione miliardi di persone in tutto il mondo, in cui le notizie scorrono sulle timeline degli utenti in “tempo reale”, e dove sappiamo cosa succede nel momento in cui succede, istituzioni come la Protezione Civile fanno fatica a tenere il passo, legate ancora come sono a protocolli e a gangli tipici della Pubblica Amministrazione (soprattutto quella italiana). Ma davvero è possibile, al netto delle innegabili difficoltà organizzative e sistemiche che sicuramente esistono, che non si riesca a far nulla per migliorare o quantomeno provare a migliorare la situazione? Possibile che il web 2.0 e le sue dinamiche informali spaventino ancora a tal punto da dover essere ignorate alle soglie del 2015? Proviamo a capire quali sono i problemi e lo stato delle cose in Italia.

Leggendo uno dei tanti studi svolti in questo periodo relativi all'alluvione di Genova, quello dell’influente blogger Vincenzo Cosenza, si osserva come in realtà meccanismi di allerta, condivisione e soccorso siano già presenti e nascano spontaneamente tra gli utenti in occasioni di calamità naturali ed eventi drammatici (terremoti, alluvioni, etc.). Si tratta della popolazione locale e nazionale, che informalmente e autonomamente si mobilità, chiede aiuto, presta soccorso, offre il proprio aiuto e beni di prima necessità. Tutte queste dinamiche (già osservate durante i Terremoti in Abruzzo e in Emilia) spontanee e autogestite rappresentano la voglia di reagire e di solidarizzare del popolo italiano, ma soffrono, non per colpa loro, dei limiti di organizzazione e coordinamento che dovrebbero spettare alle istituzioni. Sempre “ascoltando” la rete si scopre un coro di voci, alcune fortemente critiche come l’articolo apparso su “Il Fatto Quotidiano”, altre con utili consigli per una Protezione Civile partecipata. Il blogger Luca Zanelli ad esempio, ha evidenziato la mancanza di una grammatica univoca che permetta di convogliare tutti i messaggi e renderli facilmente consultabili e monitorabili in tempo reale, oppure il Professor Gianluca Comin che ha invocato recentemente un’educazione digitale e 2.0 per personale statale e volontari. Insomma ce ne è per tutti, ma le voci Istituzionali tacciono. Del resto sulla Rete operano i professionisti del Web, che con molta facilità identificano gli obiettivi e si muovono in un orizzonte di conoscenza. Ma cosa è che ostacola veramente la svolta digitale che tutti invocano e che appare necessaria?

Secondo Maurizio Scelli, già capo della Croce Rossa con una grossa esperienza nell'ambito del volontariato partecipato e dell’organizzazione di strutture pubbliche partecipate da volontari, le difficoltà si nascondono nella gestione delle varie fasi di un’emergenza: la previsione dell’evento, l’allerta e il coordinamento del soccorso e dell’intervento. Da un punto di vista della previsione dell’evento si è legati agli strumenti a disposizione. Nel caso di Genova ad esempio le previsioni del tempo. In questo campo la tecnologia sta facendo dei passi in avanti (ad esempio in Gran Bretagna il MET Office si munirà presto di un Super Computer per le Previsioni in tempo reale) ma il problema per il momento è reale. Diverso è l’affrontare la seconda fase, ovvero l’allerta della cittadinanza e delle istituzioni coinvolte nella “catena dell’allerta”. Questo è il primo punto problematico dove si può fare molto anche agendo sui nuovi Media. Attualmente il processo di allerta è legato alle procedure di protocollazione varie, mille passaggi che rendono farraginosa la trasmissione delle notizie. E’ evidente come la condivisione sui Social Network attraverso uno shared alerting renderebbe tutto immediatamente più semplice. Su questo punto ci si è sempre arenati su una legislatura stringente che spesso non permette la diffusione di notizie prima che il contorto meccanismo burocratico sia concluso. Se è vero che i vincoli legali esistono per un motivo, è anche vero che con una struttura di comunicazione credibile e regole d’ingaggio unitarie e chiare per tutti, tali limiti possono essere quasi del tutto rimossi. E’ proprio in casi come questi che non ci si può nascondere dietro protocolli burocratici o vincoli di legge.

Ma il punto sul quale Scelli maggiormente si sofferma è quello del coordinamento dei soccorsi. Attualmente tutta la mobilitazione dei volontari (lodevole e numerosissima) è spontanea e non controllata ne gestita dalla Protezione Civile. Un’organizzazione precisa fatta attraverso una grammatica ufficiale, tagging geolocalizzato e organizzazioni in unit territoriali (micro e macro) consentirebbe di ottimizzare gli sforzi dei soccorritori – volontari e non – e di essere vicini ai cittadini in difficoltà.

Un sistema di comunicazione 2.0 efficace nei momenti di crisi non si improvvisa né nasce il giorno dell’evento disastroso. Fare un tweet nel giorno dell’allerta non significa avere una comunicazione 2.0.

E’ necessario fornire un’educazione digitale ai cittadini e agli operatori. Invece di riempire il sito con pagine statiche 1.0 di decreti, avvisi, comunicazione istituzionale, bisognerebbe comunicare e aprirsi al dialogo con i cittadini. Ci fa notare Scelli come sul sito dei vigili del fuoco di Los Angeles, tra i molteplici contenuti scaricabili per il cittadino, sia presente addirittura una guida sull'utilizzo dei social media nei momenti di emergenza, sintomo di un approccio differente, comunicativo e partecipativo che è molto diffuso nei paesi maggiormente digitalizzati.
Ufficio Stampa
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