ANTICA ROMA - Le donne di Re, Cesari e Imperatori

Donne di potere che non solo affiancarono uomini potenti, ma giunsero a volte a compensare le deficienze di alcuni di loro. Strategie di donne messe in atto per occupare quel posto: Ersilia, Tanaquilla, Livia, Agrippina, Poppea... In questa carrellata di ritratti partiremo da lontano, fino ad incontrare Creusa, sposa di Enea. Perché così lontano? Perché da Julo, , l’altro nome di Ascanio, figlio di Creusa, per tradizione popolare, si fa discendere la gens Julia
Torino, (informazione.it - comunicati stampa - editoria e media)

 

La Donna  nella Società Romana.

 All’interno di una società fortemente maschilista,  la donna romana viveva in assoluta condizione di inferiorità rispetto all’uomo, da cui finiva sempre per dipendere: come padre o come marito e perfino come fratello o figlio maggiore, quando restava vedova. Non conobbe mai, però, la sorte del gineceo, in cui veniva confinata la donna greca.

Soprattutto in età repubblicana, la sua sottomissione al maschio fu totale: il marito aveva sulla moglie diritto di vita e di morte. In caso di adulterio e perfino se fosse stata sorpresa a bere vino, poteva essere punita con la morte. (la sbronza era considerata il primo passo verso l’adulterio).

La posizione economica era fortemente penalizzata essendo, la sua dote, completamente integrata con quella del marito, che poteva disporne a piacimento, come disporre poteva di ogni altra cosa:  schiavi e perfino figli, che poteva anche esporre, se non desiderati.

La sua esistenza si svolgeva tra le mura domestiche;  mai sola, poteva uscire, ma vigilata e sempre accompagnata, sia per le proprie esigenze che per accompagnare il marito nei banchetti o altro.  Il suo solo scopo di vita, infatti, era la cura della casa e dei figli.( in caso di mancanza di figli, poi, era sempre lei quella sterile e mai il marito che, per quella “mancanza” poteva chiedere il divorzio). L’adulterio femminile, infine, era punito assai severamente, al contrario di quello maschile, essendo considerata, la fedeltà della donna, il principio su cui si basava la famiglia.

La donna della Roma repubblicana, soprattutto  se  aristocratica e di buona famiglia, era, dunque, una donna virtuosa, educata ai valori della riservatezza e del pudore, completamente dedita alla casa e alla famiglia.

Un po’ meno rigida, la condizione della donna  del popolo la quale, lavorando come lavandaia, panettiera, tessitrice, era  leggermente più indipendente; assai peggio, naturalmente, la condizione della schiava.

La donna repubblicana, però, era anche  sobriamente elegante e suo è il merito di aver indossato per prima la biancheria intima.

 

La società e la famiglia romana, però, non erano statiche, ma in continua evoluzione; vediamo, così, nel corso dei secoli, la donna romana migliorare la propria posizione economica e la propria indipendenza. E’ sempre in condizione di inferiorità rispetto al maschio, (che arriva perfino a discutere se ella possieda oppure no un’anima), ma la vediamo sempre più impegnata a riscattare la propria condizione. Come avvenne nel 195  a.C., quando un nutrito gruppo di donne scese in piazza per manifestare contro la Lex Oppia, una legge che stabiliva che le donne non potessero possedere più di mezza oncia d’oro, indossare abiti ornati di porpora, e altro ancora. Condannate, dunque,  ad una condizione di  dipendenza da   leggi  e   dalla morale, le  donne romane  seppero sfruttare  le  lacune  delle leggi  medesime  ed ottenere  diritti  e riconoscimenti.

Già nell’ultimo periodo repubblicano le donne videro migliorate le proprie condizioni e riconosciute una autonomia e una dignità conquistate a caro prezzo: potevano disporre dei propri beni, applicarsi alle lettere, ecc. Condizione, però, non da tutti ben vista.

Ecco la “sferza” di Giovenale verso le donne che si

danno all’atletica:

“Quale pudore aver potrà la donna che il suo sesso rinnega e cinge l'elmo?»

Ancora più sferzante nel giudicare la donna che si appassiona alle lettere ed in favore, invece, di quelle che si conservano ignoranti:

“… la donna che non usa un lambiccato stile...e non conosca le istorie tutte: poche cose sole sappia dai libri, e che neppur capisca.»

Ma  qui si  inserisce  assai  bene la  figura di Ortensia, il primo grande avvocato-donna della storia,  con  la famosa  “Orazione”  pronunciata  nel Foro  in  difesa  di  un  gruppo di  benestanti donne  romane chiamate a  pagare tasse per sostenere  operazioni  belliche; da  premettere,  che  si  trattava della figlia  del grande oratore Ortensio Ortalo, unico e  solo grande avversario del celeberrimo Cicerone.   

Le straordinarie capacità  oratorie, l’arte  del  “saper  ben  parlare”, la resero celebre già ai  tempi  del Primo Triumvirato, quando, alla presenza dei Triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido, Ortensia pronunciò un coinvolgente discorso in difesa  dei  diritti  delle donne romane.

All’epoca  alle donne non  era concesso  parlare  in pubblico, ma Ortensia  seppe  astutamente  aggirare l’ostacolo  e giustificare la sua  presenza  in  quel  luogo riservato a  soli  uomini. Ci riuscì accusando  amabilmente  i Triumviri di  non aver  ascoltato le istanze  delle  proprie mogli  e  aggiunse   che  le guerre in corso tenevano  lontano mariti, padri  e  fratelli, lasciando le donne  esposte ai  soprusi e con  la necessità di  difendersi. 

Concluse l’arringa con una  domanda che  convinse i Trumviri a cedere  su  molte  delle richieste: perché mai  avrebbero dovuto essere le donne a  pagare le tasse, dal momento che  guerre, magistrature, pubblici  uffici  e  ogni genere  di  comando erano nelle  mani  degli uomini?

Fu  quella una  grande  vittoria per le donne romane. In epoca imperiale la pressione morale andò   rallen-

tando e così il costume, che divenne sempre più libero

e libertino.

Assistiamo ad un grande mutamento: abbiamo lasciato una donna sottomessa e fedele e la ritroviamo capricciosa ed indipendente. Le donne appartenenti a ricche famiglie si occupano sempre meno di casa e figli ( lasciati nelle mani di schiavi e precettori) e sempre più di feste e banchetti; banchetti e festini, però, sono occasioni per ostentare ricchezze e potere, anche da parte dei maschi.

La donna romana d’epoca imperiale veste di seta e splende di ori e gioielli. Dedica almeno metà della giornata, attorniata da schiave, alla cura del corpo e dell’abbigliamento. Per nascondere la bassa statura esibisce tacchi vertiginosi e per assecondare l’irrefrenabile vanità, si affida a belletti, cosmetici ed

elaboratissime acconciature cosparse di polvere d’oro.

Letteralmente coperta di gioielli da capo a piedi, la donna romana ostenta le ricchezze predate ad altre donne in terre lontane; compreso le pellicce, diventate un accessorio indispensabile.

Al contempo, però, proprio in età imperiale ecco rivivere alcuni aspetti della “virtù repubblicana”  ed ecco gli esempi di eroiche, virtuose matrone romane che seguirono i mariti  anche nella disgrazia e nella morte, come la nobile Passea che si tagliò le vene assieme al marito, Pomponio Labeone o come Paolina, la giovane moglie di Seneca, salvata in e   xtremis per volere di Nerone. Ed infine il famoso episodio di Arria che volle precedere nella morte il

marito, Peto,  uccidendosi lei per prima,

 

La parità con l’uomo… beh…

Nonostante il lusso sfrenato, l’apparente o reale indipendenza economica, non c’era proprio alcuna parità di sesso. Giuridicamente non contava nulla, però, proprio in materia giuridica arrivò un primo segnale di cambiamento: non diritti politici, ma diritti civili  e precisamente, “diritto matrimoniale.

Il matrimonio romano, detto  cum manus, prevedeva il passaggio della tutela della donna dal padre al marito; nel secondo secolo dopo Cristo, invece, si diffuse il matrimonio sine manus che prevedeva il consenso di entrambi i coniugi: primo passo verso l’emancipazione reale… almeno in seno alla famiglia.

Il secondo passo, di conseguenza, fu la legge che regolamentava l’adulterio, reato di cui rispondeva solo la donna, fino alla condanna a morte, decretata dallo stesso marito il quale, invece, non rispondeva affatto dello stesso reato.

Con la  Lex Julia de adulteriis  coercendis, 18. A.C., che  rendeva giustizia anche ai diritti della donna, entrambi i coniugi rispondevano in egual misura di fronte a tale reato; anche riguardo l’istruzione, non si riteneva più inutile o addirittura dannoso per la donna l’istruirsi, ma , al  contrario, che la donna istruita fosse una  migliore  madre e padrona di casa.

La parità  con l’uomo?

Quella proprio non c’era!

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