La Cina blocca le terre rare e l'Occidente trema




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Non sono terre, e neppure così rare, ma la loro importanza è tale da poterle considerare il petrolio del XXI secolo. Parliamo dei 17 elementi chimici – tra cui disprosio, terbio e neodimio – che compongono le cosiddette "terre rare", fondamentali per l'industria high-tech, dalle auto elettriche ai chip, passando per turbine eoliche e sistemi d’arma. Pechino, che controlla circa il 90% della raffinazione globale di questi materiali, ha deciso di stringere i cordoni: dal 4 aprile, l’export di sette terre rare pesanti è soggetto a licenze speciali. Una mossa che, se ampliata, potrebbe rivelarsi un’arma strategica paragonabile, nelle conseguenze, a un embargo nucleare.
La misura, inserita nel pacchetto di ritorsioni contro i dazi statunitensi, non è una novità assoluta – già nel 2010 la Cina aveva ridotto le quote d’esportazione – ma arriva in un momento di tensioni commerciali acuite, con Washington che cerca di ridurre la dipendenza da Pechino. Il problema, però, è che trovare alternative non è semplice. Sebbene giacimenti siano presenti in Australia, Brasile e persino in Groenlandia, la raffinazione resta un monopolio cinese, complicato da processi industriali ad alto impatto ambientale che pochi Paesi sono disposti a sostenere.
L’Europa, intanto, si trova di fronte a un bivio. Da un lato, Bruxelles ha avviato progetti per sviluppare filiere autonome, come il consorzio ERMA per i magneti permanenti; dall’altro, i tempi di realizzazione sono lunghi, e nel frattempo l’industria continentale – già alle prese con i rincari energetici – rischia di subire un altro colpo. Senza contare che Pechino potrebbe estendere le restrizioni ad altre terre rare, paralizzando interi settori.