Migranti ammanettati, la ferocia che diventa spettacolo


Articolo Precedente
Articolo Successivo
Le immagini dei quaranta migranti sbarcati in Albania con le manette ai polsi hanno scatenato polemiche, ma il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non solo non si scusa, le difende. «Quella delle fascette è una procedura normale», ha dichiarato, giustificandola con la necessità di evitare fughe e ridurre i costi del trasferimento. Un’operazione che, secondo lui, avrebbe richiesto altrimenti un dispendio di risorse maggiore, compreso l’impiego di un numero quadruplo di agenti.
Quel che colpisce, però, non è solo la freddezza burocratica con cui viene descritta una misura che riduce esseri umani a merce da trasportare sotto scorta. È la consapevolezza che quelle foto, quelle manette esibite come trofei, servano a un preciso disegno politico. Un calcolo che trasforma la sofferenza in propaganda, la repressione in spettacolo. I quaranta migranti, tutti segnalati come irregolari con diritto all’espulsione, hanno scoperto di essere diretti in Albania solo al momento dell’arrivo a Shengjin. E per sette ore, durante la navigazione da Brindisi, sono rimasti immobilizzati, mentre tra loro si registravano già i primi episodi di autolesionismo.
A Gjader, il centro che li ospita, regnano il silenzio e l’opacità. Definito da alcuni «una colonia penale», funziona però perfettamente secondo la logica populista, che della durezza fa un vanto. Non importa se l’efficienza sia discutibile, se i metodi suscitino interrogativi: ciò che conta è l’impatto emotivo, l’idea di un controllo ferreo. Le manette non servono solo a contenere, ma a mostrare. A dimostrare che lo Stato sa essere inflessibile, che la sicurezza viene prima di tutto.
E mentre il governo rivendica queste scelte come necessarie, c’è chi si chiede dove finisca la linea tra ordine e disumanità. Perché se è vero che la gestione dei flussi migratori richiede misure complesse, è altrettanto vero che trasformare le persone in simboli di una battaglia politica rischia di svuotare il dibattito di ogni razionalità. Senza contare che, in questo modo, si alimenta un circolo vizioso: più si alza il tono dello scontro, più si radicalizzano le posizioni, più diventa difficile trovare soluzioni che non siano dettate dalla pura esibizione di forza.