Dazi, quando lo stato si separa dal mercato





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La bufera dei dazi scatenata da Donald Trump non si limita a scuotere le Borse, a bruciare miliardi o a erodere il Pil. Quello che sta accadendo, mentre i mercati vacillano e le previsioni economiche vengono riscritte, è qualcosa di più profondo: una frattura storica tra Stato e mercato, l’abbandono di quel patto occidentale che per decenni ha regolato gli scambi globali. Una separazione destinata a ripercuotersi ben oltre le fluttuazioni finanziarie, modificando equilibri che sembravano consolidati.
«Stiamo vedendo il caos, i commerci sono in tilt», afferma Manuel Grimaldi, amministratore delegato di Grimaldi Lines e presidente dell’International Chamber of Shipping. Le sue navi, che solcano i mari di tutto il mondo, risentono già delle nuove barriere doganali. Eppure, nonostante lo sconquasso, Grimaldi non rinuncia a un barlume di ottimismo: «Sarà possibile un riallineamento delle rotte commerciali, e l’Italia, con la qualità dei suoi prodotti, potrà ancora competere». Una speranza che però scontra la realtà di un sistema in fibrillazione.
Trump ha impiegato i dazi come un’arma, colpendo senza distinzioni amici e rivali. Un 10% sulle esportazioni degli alleati, un 20% per l’Unione Europea – accusata di aver «approfittato» degli Stati Uniti – e una punizione del 34% riservata alla Cina, con la minaccia di ulteriori rincari. Una strategia aggressiva, che ha costretto Bruxelles a fare i conti con un’adolescenza economica ormai finita. Se l’Europa vuole sopravvivere alla guerra commerciale, dovrà diventare «adulta», abbandonando l’illusione di un mercato globale senza attriti.
Intanto, dalla Casa Bianca arriva un nuovo segnale di instabilità: il portavoce Karoline Leavitt ha annunciato che l’amministrazione sta valutando dazi differenziati per alcune merci, calibrati in base all’impatto che le importazioni hanno sull’economia statunitense. Un ulteriore passo verso un protezionismo sempre più selettivo, che rischia di frammentare ulteriormente gli scambi.