L’attività portuale cinese crolla sotto il peso dei dazi di Trump, mentre Pechino risponde con contromisure




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L’impatto dei dazi imposti da Donald Trump sulle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti si è tradotto, nella prima settimana di aprile, in un brusco calo del traffico marittimo. I dati, inequivocabili, mostrano un tonnellaggio movimentato nei porti della Cina pari a 244 milioni di tonnellate, con un crollo del 9,7% rispetto alla settimana precedente. Un tracollo che supera di gran lunga la flessione dello 0,88% registrata subito dopo l’annuncio delle nuove tariffe, quando Pechino aveva reagito con misure analoghe.
Quella che era iniziata come una strategia per ridurre il deficit commerciale statunitense si è trasformata in una vera e propria guerra commerciale, con entrambe le potenze economiche pronte a infliggersi colpi sempre più duri. Trump, che aveva definito la Cina «un predatore economico», ha trovato una controparte altrettanto determinata a non cedere, nonostante il divario negli scambi bilaterali. «Stanno giocando una mano perdente», ha commentato l’investitore Scott Bessent, sottolineando come le esportazioni statunitensi verso la Cina rappresentino appena un quinto di quelle in direzione opposta.
La cosiddetta escalation dominance, ovvero la capacità di controllare l’intensità del conflitto, sembra per ora favorire Pechino, che può contare su un mercato interno vasto e su una rete commerciale globale più articolata. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno puntato su una strategia aggressiva, alternando minacce a brevi tregue negoziali, come quella annunciata a inizio aprile e rapidamente abbandonata. Un approccio che ha lasciato osservatori e operatori economici nella stessa incertezza dei tempi in cui i sovietologi cercavano di interpretare le mosse del Cremlino