Il Perù piange Mario Vargas Llosa, lo scrittore che trasformò il dolore in letteratura

Articolo Precedente
Articolo Successivo
Mario Vargas Llosa, scomparso a Lima il 13 aprile all’età di 89 anni, ha lasciato un vuoto che va ben oltre i confini del Perù, suo paese natale. Le librerie espongono in vetrina i suoi capolavori, mentre i quotidiani locali dedicano intere pagine alla sua eredità. "Lo ricordo come un mostro della letteratura, sudamericana e mondiale", ha detto Oscar Trelles, un impiegato intervistato per strada.
Quella di Vargas Llosa non è stata solo una carriera, ma una ribellione costante. Da bambino, dopo aver subito un’aggressione dal padre – episodio che segnò per sempre la sua percezione del potere e della violenza – trovò rifugio nei personaggi dei romanzi. Sognava di essere Jean Valjean, il protagonista de I miserabili, o il terrorista Chen de La condizione umana, comprendendo fin da subito che la letteratura poteva essere un atto di disobbedienza. Cambiare identità, voce, persino biografia era l’unico modo per sopravvivere all’oppressione.
La sua prosa, ricca e stratificata, rifletteva quella stessa complessità. Quando nel 2013, durante una visita a Palermo, si trovò di fronte al manoscritto originale del Gattopardo, gli occhi gli brillarono come quelli di un bambino. Nemmeno il Nobel per la letteratura, vinto nel 2010, riusciva a smorzare quell’emozione genuina di fronte alla grandezza di un’opera.
Intellettuale scomodo, Vargas Llosa non ha mai evitato di criticare i totalitarismi, tanto da diventare un riferimento per chi vedeva nella scrittura uno strumento di libertà. Le sue posizioni, spesso controcorrente, gli attirarono sia ammiratori che detrattori, ma lui non si è mai sottratto al dibattito. "Dedicherò il meglio del mio tempo e il meglio della mia energia a scrivere", aveva promesso a se stesso, e quella promessa l’ha mantenuta fino all’ultimo rigo.