CELLINI, PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE RACCONTA LO SCULTORE E IL MAESTRO D'AVVENTURE

«…durante tutta la sua vita di lavoro indefesso lo scultore, orafo e scrittore, mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli…»
FIRENZE, (informazione.it - comunicati stampa - arte e cultura)

Riuscì sempre a cavarsela. Era lo spadaccino più permaloso di tutta l’Italia del Cinquecento e i suoi nemici pagarono con la vita. Si prese le donne che gli piacquero. La battaglia gli metteva allegria. Il carcere più profondo non bastava a tenerlo.

 

Ma quest’avventuriero spaccone fu soprattutto il più grande orefice del mondo. Tale era l’opinione che aveva di se stesso Benvenuto Cellini, e i collezionisti la condividono ormai da oltre 400 anni. La storia in genere conferma le pittoresche avventure narrate nella sua Vita.

 

Benvenuto Cellini nacque a Firenze nel 1500. Dal padre, fabbricante di strumenti musicali, ereditò l’abilità manuale. Fin dall’infanzia si fermava davanti alle botteghe degli orefici, attratto dal ticchettio dei martelletti, dal soffiare dei mantici, dall’incandescenza delle braci. S’infilava dentro per vedere lo splendore che i tagliatori di gemme traevano dalle pietre preziose ancora grezze e per osservare gli artigiani che lavoravano l’oro nella sua infinita e lucente duttilità.

 

Ben presto si fece assumere come apprendista in una delle botteghe. Questo scatenò un finimondo perché Cellini padre aveva deciso in cuor suo che Benvenuto dovesse diventare un musicista. È vero che quelle agili piccole dita sul flauto sapevano far sgorgare lacrime di gioia dai teneri occhi paterni. Ma Benvenuto non era il tipo da esercitarsi con le scale tutto il giorno. Per sfuggire alle odiate note scappava di casa e stava via parecchi mesi di seguito, guadagnandosi la vita come apprendista orefice nelle città vicine. A 19 anni, avendo litigato più del solito col padre, s’incamminò a piedi per Roma, dove si diceva che il papa era prodigo di oro con gli artisti come le fontane della città erano prodighe d’acqua.

 

Il suo primo lavoro a Roma consisté nell’adornare uno scrigno d’argento per un cardinale. Lo fece in bassorilievo, decorandolo molto più di quanto non gli fosse stato ordinato, con fogliami intrecciati, frutta, putti e maschere grottesche. Il maestro della bottega era così fiero di questo scrigno che lo mostrò a tutta la città. E ancor più fiero fu Benvenuto di mandare il compenso che gli spettava al padre, che continuò a mantenere generosamente finché visse. Poiché la mano di Cellini era pronta a dare come a colpire; durante tutta la sua vita di lavoro indefesso mantenne non solo una sorella vedova con sei figli ma anche un’altra famiglia in miseria che non aveva nessuna parentela con lui e molti giovani artisti e modelli.

 

A Roma guadagnò largamente e in breve ebbe una bottega sua. Da questa uscirono anelli, cammei e spille di squisita fattura, coltelli e pugnali dal manico intarsiato, cinture d’argento per le spose e una brocca d’oro per un vescovo. Cellini fece anche fucili, per suo proprio uso, perché era schiavo della  violenta e persistente passione di andare a caccia di folaghe nelle paludi intorno alla Città Eterna.

 

Fu un colpo da maestro che dette inizio al susseguirsi delle eccitanti avventure di Benvenuto Cellini. Nel 1527 Roma era assediata dalle forze dell’imperatore Carlo V, al comando del connestabile di Borbone. Cellini, che era volontario nel corpo di guardia sulle mura, scrutando attraverso la nebbia vide un gruppo di nemici che si avvicinava. Puntando l’archibugio uccise il capo del gruppo con un solo colpo. Cellini racconta che questi, come si vide poi, era il connestabile in persona. Pura vanteria? La storia ci dice che proprio in quel giorno il connestabile fu ucciso da una sentinella sconosciuta.

 

Dopo di ciò Benvenuto Cellini ebbe il comando delle artiglierie sul mastio di Castel Sant’Angelo. Lo stesso papa Clemente VII, venne fuori a osservare la mira del Cellini che martellava le trincee del nemico. Per un mese, con gioia a metà puerile e a metà diabolica, Benvenuto dimenticò la sua arte delicata.

 

Finita la guerra, Cellini fu nominato maestro della Zecca Vaticana. Oltre a ciò foggiò una quantità di splendidi ornamenti per i dignitari della Chiesa. Un bottone per il piviale pontificio richiese anni di lavoro. Grande come un piattino, raffigurava Dio Padre circondato da 15 angeli in oro sbalzato, e c’erano incastonati smeraldi, zaffiri, rubini e un magnifico brillante. Quest’oggetto fece parte del

tesoro vaticano per 250 anni, ma fu poi unito alla «indennità» pretesa da Napoleone Bonaparte nel 1797 e mani vandaliche ne estrassero i gioielli e ne fusero l’oro.

 

Non bisogna però credere che la vita di Benvenuto fosse tutta spesa a lavorare per la Chiesa. Una volta gettò via il cesello per seguire un bel visetto siciliano fino a Napoli. Le modelle dell’artista Cellini, sembravano essere irresistibili per l’uomo Benvenuto.

 

Nell’odio era ardente come nell’amore. Quando il fratello fu ucciso in una rissa, Benvenuto non pensò neppure a chiamare i custodi dell’ordine: a che sarebbe servito, visto che l’uccisore era un caporale delle guardie della città? «Presi a vagheggiare quello archivitabusiere» dice Benvenuto «come se fosse stato una mia innamorata.» Infine in un vicolo buio col pugnale si fece giustizia.

 

Alla morte del vecchio papa, prima che fosse eletto il nuovo, a Roma non c’era altra legge fuorché l’anarchia. Un orefice del Vaticano, suo rivale, di nome Pompeo, si mise in cerca del Cellini con dieci armati. Benvenuto s’imbatté in questi per la strada. Nella zuffa uccise Pompeo con una pugnalata e mise in fuga i suoi scherani. Ma la figlia di Pompeo andò sposa a un amico intimo di Pier Luigi Farnese “nipote” del nuovo papa, e per sua istigazione il Cellini veniva continuamente

perseguitato. Un assassino còrso gli tese un agguato, sicari lo seguirono a Venezia, un’altra banda lo costrinse a fuggire di notte. Riusci sempre a cavarsela. Ma nel 1537 fu arrestato per ordine del papa. Fu chiuso in una cella «dove fu decisa la mia morte» come egli dice.

 

Con grande astuzia preparò la fuga. Prima rubò delle tenaglie a un operaio del carcere. Quando i suoi apprendisti gli portarono delle lenzuola pulite, nascose quelle sudice nel materasso. Con le tenaglie estrasse quasi tutti i chiodi dai cardini di ferro della porta lasciandone appena quanti bastavano per tenerla a posto. Ci vollero parecchie settimane per tirarli fuori e contraffare le borchie con della cera di candele mista a ruggine onde trarre in inganno i carcerieri. Quando tutto fu pronto s’inginocchiò e rimase a lungo in preghiera.

 

Rimanevano soltanto due ore di oscurità quando estrasse gli ultimi chiodi dai cardini e sgusciò fuori dalla cella. Si attorcigliò sulla schiena le strisce di lenzuola annodate, usci sul bastione e di lì si calò nel cortile.

 

La notte volgeva al termine e Benvenuto spiava le sentinelle aspettando il momento opportuno per superare il muro esterno. Arrampicatosi su questo con l’aiuto di una pertica che aveva trovato per caso, assicurò le lenzuola rimaste a una pietra in cima al muro e iniziò la discesa verso la libertà. Ma o le lenzuola o le sue mani esauste cedettero, perché Cellini cadde e si ruppe una gamba. La legò stoicamente e si trascinò fino alla porta della città; era ancora chiusa, ma il Cellini riuscì a rimuovere una grossa pietra da sotto la porta e a infilarsi in quel buco nonostante i dolori strazianti. Passata la porta fu assalito dai cani da difesa. Ma un servitore del cardinale Cornaro di Venezia lo riconobbe e lo portò al palazzo del suo padrone.

 

Disgrazia volle che il cardinale desiderasse una sede vescovile per un suo amico e che il pontefice non gliela volesse concedere. Così fu concluso un patto: il cardinale ottenne il vescovado e il papa riebbe il suo prigioniero. Questa volta il Cellini fu chiuso in una segreta nei sotterranei di Castel Sant’Angelo: una fossa piena d’acqua, in cui egli giacque in delirio per parecchi giorni.

 

Ma allora, al palazzo di Fontainebleau in Francia, il re Francesco I aveva espresso il desiderio di avere come orefice di corte questo Benvenuto Cellini del quale aveva sentito fare tanti elogi. Un altro cardinale influente parlò in suo favore al papa. Così dalla sua immonda cella il Cellini fu trasportato alla corte più brillante d’Europa. Qui gli furono dati splendidi appartamenti, un gruppo di aiutanti e ricevette un’ordinazione dopo l’altra per opere di grande impegno, d’oro, d’argento e di bronzo, tra cui una «saliera» d’oro - in realtà è un centro da tavola per banchetti - che è oggi il vanto di un museo di Vienna

 

Il re e la regina, il cardinale e i nobili venivano spesso a visitare la sua bottega sempre attiva. Tutto prometteva bene. Ma Cellini aveva fatto i conti senza la favorita del re e, sebbene fosse un esperto adulatore, aveva trascurato di richiedere l’opinione di quest’ultima. In seguito alla sottile opposizione che lei gli mosse, Cellini poté portare a compimento ben poco di ciò che aveva progettato per Francesco I, e nel 1545, deluso, tornò a Firenze e divenne il protetto del duca Cosimo I, ben noto patrono delle arti. Cosimo suggerì a Benvenuto di scolpire una statua di Perseo, il leggendario eroe greco che uccise Medusa, la Gorgone anguicrinita (che ha serpenti al posto dei capelli, ndr) che impietriva chiunque la guardasse.

 

Cellini fece un modello dopo l’altro, di cera, di stucco, di marmo. Infine, dopo nove anni, riuscì a compiere una figura più grande del vero, che lo soddisfece. Ora si trattava di gettarla in bronzo! Questa era una delle operazioni più difficili che la scultura avesse mai tentato fino allora. Cellini doveva progettare da sé le fornaci e le forme, ed escogitare le leghe. Il duca scosse la testa e predisse un disastro.

 

Ecco come il Cellini racconta la sua impresa, forse la più appassionante di tutta la sua vita.

 

«Alla fine gridai che fosse accesa la fornace. I tronchi di pino vi erano accatastati e la fornace lavorava tanto bene, che io fui necessitato a soccorrere ora da una parte e ora da un’altra per alimentarla. Non resistevo più e mi saltò addosso la febbre, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto. Quando due ore dopo tornai nella bottega trovai tutto rappreso il metallo e il tetto della bottega in fiamme. Mandai sul tetto a riparare al fuoco e dissi a due manovali che andassino a prendere una catasta di legne di quercioli giovani, e quando queste presono fuoco, oh come quel metallo rappreso si cominciò a schiarire, e lampeggiava in quel terribile fuoco.»

 

«In un tratto è si sente un romore con un lampo di fuoco grandissimo. Mi avvidi che il coperchio della fornace si era scoppiato e il bronzo si versava fuori. Subito feci aprire le bocche della mia forma. Ma veduto che il metallo non correva con quella prestezza ch’ei soleva fare, forse per essersi consumata la lega per virtù di quel terribile fuoco, io feci pigliare tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa dugento, e a uno a uno li gittai drento. In tal modo riuscii nell’intento e ora il mio bronzo s’era benissimo fatto liquido e la forma si empiva. Quando vidi il mio lavoro compiuto m’inginocchiai, e con tutto il cuore ne ringraziai Iddio.»

 

La statua di Perseo fu posta in una loggia in Piazza della Signoria nel cuore di Firenze. Là si erge oggi, nel bronzo immortale il vigoroso eroe che solleva la testa di Medusa.

 

Con questa sola opera Cellini prese posto tra i grandi scultori. In questo periodo fecondo fece altri lavori in bronzo e in marmo: busti, figure mitologiche e un grande crocifisso per la propria tomba (pur tuttavia aveva ucciso umani e altri animali).

 

Con l’avanzare degli anni, quest’uomo che aveva vissuto così felicemente seguendo i suoi principi, pian piano si conformò a quelli del resto dell’umanità. A 64 anni sposò la sua domestica e cominciò ad allevare i propri figli in stato coniugale. Laddove un tempo aveva elargito le sue sostanze liberamente, ora ascoltò il parere dei savi e le investi... e così perse tutto (banchieri dell’epoca).

 

Il 13 febbraio 1571 le avventure terrene di Benvenuto Cellini ebbero termine. Eppure continuano per sempre, poiché ogni generazione le riscopre nella sua scintillante autobiografia. Per quasi due secoli il manoscritto fu perduto. Quando venne alla luce e fu pubblicato tutta l’Europa ne rimase affascinata. Goethe, che lo tradusse in tedesco, dichiarò che costituiva un miglior quadro di quei tempi che non qualunque rigoroso testo storico. Dumas lo divorò e poi offrì al mondo il suo allegro cavaliere D’Artagnan, il capo dei Tre Moschettieri. Da allora in poi la figura di un intrepido spadaccino, burlone, rubacuori e femminaro è balzata da cento libri ed è comparsa su mille schermi. Il primo di tutti era stato Benvenuto Cellini.