Evolution Travel, Jet Airways ed Ente del Turismo Indiano per offrire l’India migliore
Sabato 25 giugno presso il ristorante indiano “Ghandi” si è svolta una serata dedicata all’India ed organizzata da Bruno Bottaro, responsabile del reparto India e Nepal del tour operator Evolution Travel, in collaborazione con 4 agenzie di viaggio venete che hanno voluto condividere con i loro clienti un’esperienza di viaggio fatta lo scorso marzo in questo paese durante un educational.
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Montegrotto Terme,
(informazione.it - comunicati stampa - turismo)
Sabato 25 giugno presso il ristorante indiano “Ghandi” si è svolta una serata dedicata all’India ed organizzata da Bruno Bottaro, responsabile del reparto India e Nepal del tour operator Evolution Travel, in collaborazione con 4 agenzie di viaggio venete che hanno voluto condividere con i loro clienti un’esperienza di viaggio fatta lo scorso marzo in questo paese durante un educational.
La serata ha avuto il supporto dell’Ente del Turismo Indiano e della compagnia aerea Jet Airways che oltre ad aver ospitato numerosi agenti di viaggio durante il Fam Trip di marzo, ha messo a disposizione un biglietto aereo gratuito per l’India.
L’evento ha visto la partecipazione di circa 80 persone e si è sviluppata nel corso di un pomeriggio, con la presentazione del paese e delle sue caratteristiche principali e di una cena in puro stile indiano, allietata e animata da una bravissima ballerina che ha ricreato l’atmosfera fastosa dei films di Bollywood.
A fine serata oltre ad aver estratto un volo per Delhi, offerto da Jet Airways, è stato tirato a sorte un soggiorno per 2 persone in India del Nord offerto da Evolution Travel.
Riportiamo l’esperienza di una giornalista che ha partecipato al Fam Trip di marzo in collaborazione con Jet Airways e che rappresenta una testimonianza incredibile di quello che può dare un viaggio in India.
Milano. Aeroporto di Malpensa. Tra poco partirà il volo della Jet Airways per Delhi. Sarà un volo diretto, che bello, il primo dopo tanti anni di scali. Qui si conoscono tutti. Ed io mi sento un po’ fuori posto. Si parla di agenzie, di viaggi.
Saliamo sull’aereo che ci avrebbe portato in India. Si fa improvvisamente notte fonda. Non so più che ore sono. Non voglio saperlo. Il sedile dopo un po’ sembra essere un manto spinato. Ho la schiena tormentata. Fa caldo. Il mio unico pensiero: dormire. Ma non riesco. Gli occhi si chiudono. E la mente rimane inchiodata a quel rumore. Mi chiedo: perché sono partita? Voglio il mio letto. Il tempo sembra essere eterno: chi ha bloccato le lancette? Sembra essere passato un giorno intero, ed invece sono solo poche ore. C’è una indiana al mio fianco. La invidio perché ha dormito. Ora è sveglia. Tira fuori dei quadri di famiglia. Il vetro si è spaccato in mille pezzi. Spolvera le cornici, maneggiandole come se fossero delle pietre preziose. Sono volti in primo piano: una donna anziana e delle foto di gruppo. La osservo per un po’, ed il sonno se ne va definitivamente. Mi rassegno al mio destino. E l’aereo atterra. Finalmente. Ci accolgono quelle grigie mani giganti appese come un frontone greco, e la polizia che ci dà il benvenuto. Usciamo. Una folata di caldo torrido mi investe come una porta in faccia. Quaranta gradi costanti saranno con noi per una settimana. La maglietta mi si attacca alla schiena. L’odore dell’India entra nelle mie narici. Mi invade e non ne distinguo i sapori. Saliti in pullman c’è un ragazzo che parla. È la nostra guida. Già lo odio. Cosa dice? Non lo so. Ho sonno. Il mio cervello non ascolta. Lui invece continua a parlare, parlare. Finalmente arriviamo in albergo. Il tempo non vuole saperne di andare più veloce. Finalmente alle sei spegniamo la luce. Dopo tre ore si riaccende. Ho dormito profondamente, incurante del letto nuovo. Mi sveglio, ed i primi attimi sembrano un incubo. I miei occhi si ribellano, ma devono aprirsi.
Una splendida giornata di sole ci attende fuori dall’hotel. Il caldo mi invade come una doccia fredda. Non riesco a respirare, ma pian piano mi abituo. I primi volti cominciano a sfilare davanti ai nostri occhi. Delhi mi meraviglia per la sua occidentalità. Non vedo quelle immagini che un po’ mi avevano turbato in Italia. I giardini sono all’inglese. E le strade ben asfaltate. Andiamo a piedi scalzi in quel tempio dei sikh. Quelli di cui ho letto su internet, che ora si presenta nella sua semplicità. Ascolto la terra sotto i piedi, mentre un canto monocromatico ci accompagna in tutti gli spazi. La terra bollente mi brucia la pelle e mi punge con la sua sporcizia. Ci prendo gusto: calpestiamo la terra che custodisce la tomba di Gandhi. Una famiglia prega per un loro defunto. Rivolgono verso Gandhi la foto di un’anziana signora. Mi ricorda la cura con cui la signora sull’aereo spolverava quel quadro. Sono seduti a terra. Sereni. In quel mausoleo che non ha nulla di maestoso. C’è una tomba. E il prato all’inglese. Intorno un bellissimo parco. Null’altro serve per parlare di pace. Quella pace che d’improvviso si dimentica ripensando alla nostra casa: una città caotica dove più nessuno conserva il senso di comunità che qui incontri in ogni sguardo. L’India, con le sue strade piene di rumori, sa trasmettere quella pace che in occidente è solo indifferenza. In noi il caos provoca rabbia e rassegnazione.
Guarda il mercato di Agra: una città rosa che si colora di clacson, biciclette, venditori ambulanti, turisti e indiani alla ricerca di occasioni. Le spezie fanno compagnia ai gioielli, le marionette fanno strada ai tessuti di mille colori. Il prezzo si contratta, ed un po’ mi dispiace. Mi sento incapace. Parlano inglese meglio di me. Alla fine compro due marionette e non so perché. Ora mi fanno compagnia, insieme ad un elefantino che odora ancora di India. A volte ti senti soffocare circondata da mille bambini, uomini e ragazzi che aspettano solamente che tu li guardi per imbrogliarti con la loro dolcezza. Pensavo di reagire in maniera diversa. E invece mi piace guardare questi occhi curiosi, osservare questa pelle che di cioccolata, ascoltare queste voci gentili, assaggiare questo sapore di vita. Poi arriva Abanheri. La casa-pozzo. Il silenzio conserva una meraviglia. Quei gradini così alti e geometrici ricordano i templi degli antichi maya. Intanto antiche maschere di pietra ricalcano il teatro greco. E Ganesh osserva nel suo silenzio. Uscire dal cancello di quel monumento cos’ solitario significa entrare nell’india vera. Quella di un villaggio statico, in cerca del proprio riscatto. La vita si riaccende al passaggio del turista che porta la vita. La miseria osserva nascosta sotto la sporcizia, mentre tutte le generazioni si affacciano alle porte disegnate dalle scene di vita. Bambini seguono la scia dei nostri passi. Un signore ci mostra la sua arte nella ceramica, mentre la moglie cerca di vendere la montagna di mercanzia accumulata nel tempo. Un ragazzo frigge della cibaria dall’aspetto non proprio invitante. E una bambina vende delle piccole pentole. Dietro c’è la scuola: una piccola stanza azzurra, spoglia ma piena di intelligenza. Più in là un carretto vende una sorta di ghiacciolo. Giriamo l’angolo e il paese si svuota. Un ragazzo esce ad accudire la sua mucca. Una donna lava i panni ad una fontana, rannicchiata a terra. Arrivano dei bambini che sembrano ben vestiti. Cerco di comunicare, ma l’ometto al mio fianco non parla inglese. Mi accompagna, bofonchiando qualcosa di incomprensibile, nella sua lingua. Questa folta schiera di venditori ci segue dappertutto. Poco più sotto di Fatepur Sikri. Un ragazzo attacca bottone. Il suo è il negozio numero 28. Ci prova con me. Parla bene italiano. Dice che è stato all’università d Pisa. Non gli credo. Al ritorno mi attenderà sotto il pullman. Sono il numero 28. Ti ricordi? Non posso venire. Mi hai deluso italiana. Mi dispiace indiano, guarda, eccolo lì il mio negozio. Vedi almeno da lontano se qualcosa ti piace. Non posso indiano. Addio italiana. Torno proprio ora dalla città abbandonata. Così vuota. Eppure i cuscini e le sere sono proprio lì, dietro quell’arenaria, vicino a quell’unico e verde albero, sopra quella polvere di centinaia di anni. Eccolo il signore di questa città. Ecco le sue mogli. E la sua idea utopica di religione nella città della convivenza. Tutto è così uguale e così diverso. I simboli sulle pareti che si tengono per mano: islamismo, cristianesimo e induismo. Sembra nascere da qui l’idea di un paese pacifico e l’immagine di un uomo gentile. Il silenzio scompare d’improvviso.
La moschea rivive con i suoi venditori. Una capra altissima, nera e bianca, si gratta muovendo le orecchie. Un tappeto di scarpe ci aspetta all’ingresso. Uno spiazzo al tramonto ci accoglie con il sole all’orizzonte. Venditori ambulanti e turisti indiani si confondono. Mi chiedono una foto. Sono troppi. Mi circondano vendendomi qualsiasi cosa. Un vecchio caccia via i bambini che si intrufolano nella moschea. È vestito di bianco. Ed ha la barba lunga. Anch’essa bianca. Basso di statura, ha un lungo bastone in mano. Il peggio sembra essere passato, ma non appena risaliamo su quel pulmino che ci riporterà a valle, decine di mani bussano ai nostri finestrini. Alcune riescono ad infilarsi. Si vedono braccialetti e collane appesi a mani morte sulle nostre gambe. Urliamo che non vogliamo nulla e loro urlano di più. Partiamo. E quelle mani non vogliono saperne d allontanarsi. I piedi corrono finché il pulmino non prende velocità. Con lo sguardo cerco quel ragazzo indiano seduto al mio fianco all’andata. Non lo vedo. Forse se ne è andato prima di noi. È sfigurato in viso. Ha una lunga cicatrice. Ha uno sguardo di una dolcezza infinita. Vorrei fotografarlo ma non ce la faccio. I suoi genitori sembrano aver paura di me. Metto via la macchina e ci chiacchiero un po’.
Anche il forte di Amber è pieno di venditori. Salire le scale che ci porteranno sul dorso dell’elefante è un’impresa. Sono attaccati a noi. Non ci lasciano respirare. Seguono la scia dei nostri piedi e salgono con noi. Ci aspetteranno alla nostra discesa. Per qualche minuto c’è silenzio. Quel movimento oscillante ricorda una barca, ma siamo sul dorso di un elefante. A volte sembra arrancare e la salita è così ripida che con tutto il suo peso sembra potersi ribaltare da un momento all’altro. Anche il forte di Amber ci conduce in un tempo esotico, quando c’erano fesre e questo bastava a colmare i piaceri della vita. Un piccolo giardino ben curato e tutti quegli specchi ben incastonati. Le candele che si riflettono e creano giochi di luce. I drappi e le sete creano un paesaggio da Le mille e una notte. Il cielo ora è di un azzurro accecante. Le mura sul pendio ricordano la muraglia cinese. Il forte si innalza con i suoi alti gradini. Ed il giallo delle sue mura acceca a contatto con il sole. Usciamo e di nuovo quella folla che ti accerchia lasciandoti senza respiro. Quelle mani tese. Tutte uguali. Saliti sulle gip quelle mani ci seguono. Si aggrappano. Basta guardare. Basta rispondere. Ci seguono in cerca di un altro sguardo. Si aggrappano fino a che possono, fino ad allontanarsi metri e metri pur di venderti qualcosa. Alla fine cedo ad uno strumento musicale che mi tormenterà per tutto il viaggio del ritorno con le sue dimensioni fuori misura.
Si avvicina intanto quell’ultima serata indiana. Ne abbiamo un assaggio la notte trascorsa in un albergo Taj, una residenza di Maharaja. Guardo le marionette che si muovono e ballano. Sono grandi. Le storie parlano di tempi antichi e di cammelli. Tutto sembra tingersi di un rosso scuro. È buio, ma l’aria è affascinante. Quegli uomini col turbante. Quella pelle scura che si confonde nella notte. Notte che trascorre nel peggiore dei modi. Il caldo a volte è soffocante. Il sapore dell’india esplode in questa notte di un afoso maggio. Tutto sembra presagire il fascino di indossare quei colori tipicamente indiani. Una donna mi veste. Mi sembra di essere tornata l tempo dell’infanzia, quando qualcuno pensava a vestirmi. Mi sento come un manichino impotente, imbarazzata sotto quelle mani così veloci. L’abito è fresco. Mi sembra di rubare un’identità. Per una notte viviamo la magia di una notte antica. I salotti così ricchi di pietre preziose. I colori vivaci fanno male agli occhi. Prima l’emozione di raggiungere quel palazzo in mezzo ad un lago d’acqua. Poi il brivido di camminare nel buio e ritrovarsi come in un film. La strada dissestata non lasciava presagire nulla di tutto questo. La musica, le luci, i salotti, i balli tipici. E poi i fuochi. Ora sembriamo indiani. Anche se i nostri visi pallidi tradiscono la nostra origine. Il tempo è trascorso troppo in fretta. Domani si riparte. Per un attimo ho l’istinto di piangere. Non voglio lasciare l’India. Voglio continuare ad osservare, ridere, meravigliarmi, intristirmi. Voglio conoscere la cultura, incontrare volti, toccare mani, incrociare sguardi,rubare storie, scoprire antichi splendori. E invece è già ora di tornare a casa. La malinconia mi culla tra le sue bracci. Guardo Anil, e la sua voce mi parla ancora dell’india, mi fa scoprire una nuova saggezza, mi incoraggia ad osservare, mi conduce per mano in un mondo diverso. Guardo Yoghi, che con il suo sorriso ci ha sempre tenuti allegri, senza mai abbandonarci con la sua giovane pazienza. Guardo quel ragazzo al fianco dell’autista. Non ho potuto mai assaggiare la sua voce. Sempre dietro il vetro. In silenzio. Cerco di incontrare il suo sguardo per dirgli: Grazie, indiano. Grazie, per la tua mano sempre presente. Grazie, per la tua gentilezza. Grazie, per il tuo rispetto. E guardo i miei compagni di viaggio, all’inizio sconosciuti ed ora così vicini. Vorrei dirvi di rimanere qui con me, ancora un po’, per continuare questo viaggio così breve ed intenso. Ma non posso. È ora di ritornare a casa.
La serata ha avuto il supporto dell’Ente del Turismo Indiano e della compagnia aerea Jet Airways che oltre ad aver ospitato numerosi agenti di viaggio durante il Fam Trip di marzo, ha messo a disposizione un biglietto aereo gratuito per l’India.
L’evento ha visto la partecipazione di circa 80 persone e si è sviluppata nel corso di un pomeriggio, con la presentazione del paese e delle sue caratteristiche principali e di una cena in puro stile indiano, allietata e animata da una bravissima ballerina che ha ricreato l’atmosfera fastosa dei films di Bollywood.
A fine serata oltre ad aver estratto un volo per Delhi, offerto da Jet Airways, è stato tirato a sorte un soggiorno per 2 persone in India del Nord offerto da Evolution Travel.
Riportiamo l’esperienza di una giornalista che ha partecipato al Fam Trip di marzo in collaborazione con Jet Airways e che rappresenta una testimonianza incredibile di quello che può dare un viaggio in India.
Saliamo sull’aereo che ci avrebbe portato in India. Si fa improvvisamente notte fonda. Non so più che ore sono. Non voglio saperlo. Il sedile dopo un po’ sembra essere un manto spinato. Ho la schiena tormentata. Fa caldo. Il mio unico pensiero: dormire. Ma non riesco. Gli occhi si chiudono. E la mente rimane inchiodata a quel rumore. Mi chiedo: perché sono partita? Voglio il mio letto. Il tempo sembra essere eterno: chi ha bloccato le lancette? Sembra essere passato un giorno intero, ed invece sono solo poche ore. C’è una indiana al mio fianco. La invidio perché ha dormito. Ora è sveglia. Tira fuori dei quadri di famiglia. Il vetro si è spaccato in mille pezzi. Spolvera le cornici, maneggiandole come se fossero delle pietre preziose. Sono volti in primo piano: una donna anziana e delle foto di gruppo. La osservo per un po’, ed il sonno se ne va definitivamente. Mi rassegno al mio destino. E l’aereo atterra. Finalmente. Ci accolgono quelle grigie mani giganti appese come un frontone greco, e la polizia che ci dà il benvenuto. Usciamo. Una folata di caldo torrido mi investe come una porta in faccia. Quaranta gradi costanti saranno con noi per una settimana. La maglietta mi si attacca alla schiena. L’odore dell’India entra nelle mie narici. Mi invade e non ne distinguo i sapori. Saliti in pullman c’è un ragazzo che parla. È la nostra guida. Già lo odio. Cosa dice? Non lo so. Ho sonno. Il mio cervello non ascolta. Lui invece continua a parlare, parlare. Finalmente arriviamo in albergo. Il tempo non vuole saperne di andare più veloce. Finalmente alle sei spegniamo la luce. Dopo tre ore si riaccende. Ho dormito profondamente, incurante del letto nuovo. Mi sveglio, ed i primi attimi sembrano un incubo. I miei occhi si ribellano, ma devono aprirsi.
Una splendida giornata di sole ci attende fuori dall’hotel. Il caldo mi invade come una doccia fredda. Non riesco a respirare, ma pian piano mi abituo. I primi volti cominciano a sfilare davanti ai nostri occhi. Delhi mi meraviglia per la sua occidentalità. Non vedo quelle immagini che un po’ mi avevano turbato in Italia. I giardini sono all’inglese. E le strade ben asfaltate. Andiamo a piedi scalzi in quel tempio dei sikh. Quelli di cui ho letto su internet, che ora si presenta nella sua semplicità. Ascolto la terra sotto i piedi, mentre un canto monocromatico ci accompagna in tutti gli spazi. La terra bollente mi brucia la pelle e mi punge con la sua sporcizia. Ci prendo gusto: calpestiamo la terra che custodisce la tomba di Gandhi. Una famiglia prega per un loro defunto. Rivolgono verso Gandhi la foto di un’anziana signora. Mi ricorda la cura con cui la signora sull’aereo spolverava quel quadro. Sono seduti a terra. Sereni. In quel mausoleo che non ha nulla di maestoso. C’è una tomba. E il prato all’inglese. Intorno un bellissimo parco. Null’altro serve per parlare di pace. Quella pace che d’improvviso si dimentica ripensando alla nostra casa: una città caotica dove più nessuno conserva il senso di comunità che qui incontri in ogni sguardo. L’India, con le sue strade piene di rumori, sa trasmettere quella pace che in occidente è solo indifferenza. In noi il caos provoca rabbia e rassegnazione.
Guarda il mercato di Agra: una città rosa che si colora di clacson, biciclette, venditori ambulanti, turisti e indiani alla ricerca di occasioni. Le spezie fanno compagnia ai gioielli, le marionette fanno strada ai tessuti di mille colori. Il prezzo si contratta, ed un po’ mi dispiace. Mi sento incapace. Parlano inglese meglio di me. Alla fine compro due marionette e non so perché. Ora mi fanno compagnia, insieme ad un elefantino che odora ancora di India. A volte ti senti soffocare circondata da mille bambini, uomini e ragazzi che aspettano solamente che tu li guardi per imbrogliarti con la loro dolcezza. Pensavo di reagire in maniera diversa. E invece mi piace guardare questi occhi curiosi, osservare questa pelle che di cioccolata, ascoltare queste voci gentili, assaggiare questo sapore di vita. Poi arriva Abanheri. La casa-pozzo. Il silenzio conserva una meraviglia. Quei gradini così alti e geometrici ricordano i templi degli antichi maya. Intanto antiche maschere di pietra ricalcano il teatro greco. E Ganesh osserva nel suo silenzio. Uscire dal cancello di quel monumento cos’ solitario significa entrare nell’india vera. Quella di un villaggio statico, in cerca del proprio riscatto. La vita si riaccende al passaggio del turista che porta la vita. La miseria osserva nascosta sotto la sporcizia, mentre tutte le generazioni si affacciano alle porte disegnate dalle scene di vita. Bambini seguono la scia dei nostri passi. Un signore ci mostra la sua arte nella ceramica, mentre la moglie cerca di vendere la montagna di mercanzia accumulata nel tempo. Un ragazzo frigge della cibaria dall’aspetto non proprio invitante. E una bambina vende delle piccole pentole. Dietro c’è la scuola: una piccola stanza azzurra, spoglia ma piena di intelligenza. Più in là un carretto vende una sorta di ghiacciolo. Giriamo l’angolo e il paese si svuota. Un ragazzo esce ad accudire la sua mucca. Una donna lava i panni ad una fontana, rannicchiata a terra. Arrivano dei bambini che sembrano ben vestiti. Cerco di comunicare, ma l’ometto al mio fianco non parla inglese. Mi accompagna, bofonchiando qualcosa di incomprensibile, nella sua lingua. Questa folta schiera di venditori ci segue dappertutto. Poco più sotto di Fatepur Sikri. Un ragazzo attacca bottone. Il suo è il negozio numero 28. Ci prova con me. Parla bene italiano. Dice che è stato all’università d Pisa. Non gli credo. Al ritorno mi attenderà sotto il pullman. Sono il numero 28. Ti ricordi? Non posso venire. Mi hai deluso italiana. Mi dispiace indiano, guarda, eccolo lì il mio negozio. Vedi almeno da lontano se qualcosa ti piace. Non posso indiano. Addio italiana. Torno proprio ora dalla città abbandonata. Così vuota. Eppure i cuscini e le sere sono proprio lì, dietro quell’arenaria, vicino a quell’unico e verde albero, sopra quella polvere di centinaia di anni. Eccolo il signore di questa città. Ecco le sue mogli. E la sua idea utopica di religione nella città della convivenza. Tutto è così uguale e così diverso. I simboli sulle pareti che si tengono per mano: islamismo, cristianesimo e induismo. Sembra nascere da qui l’idea di un paese pacifico e l’immagine di un uomo gentile. Il silenzio scompare d’improvviso.
La moschea rivive con i suoi venditori. Una capra altissima, nera e bianca, si gratta muovendo le orecchie. Un tappeto di scarpe ci aspetta all’ingresso. Uno spiazzo al tramonto ci accoglie con il sole all’orizzonte. Venditori ambulanti e turisti indiani si confondono. Mi chiedono una foto. Sono troppi. Mi circondano vendendomi qualsiasi cosa. Un vecchio caccia via i bambini che si intrufolano nella moschea. È vestito di bianco. Ed ha la barba lunga. Anch’essa bianca. Basso di statura, ha un lungo bastone in mano. Il peggio sembra essere passato, ma non appena risaliamo su quel pulmino che ci riporterà a valle, decine di mani bussano ai nostri finestrini. Alcune riescono ad infilarsi. Si vedono braccialetti e collane appesi a mani morte sulle nostre gambe. Urliamo che non vogliamo nulla e loro urlano di più. Partiamo. E quelle mani non vogliono saperne d allontanarsi. I piedi corrono finché il pulmino non prende velocità. Con lo sguardo cerco quel ragazzo indiano seduto al mio fianco all’andata. Non lo vedo. Forse se ne è andato prima di noi. È sfigurato in viso. Ha una lunga cicatrice. Ha uno sguardo di una dolcezza infinita. Vorrei fotografarlo ma non ce la faccio. I suoi genitori sembrano aver paura di me. Metto via la macchina e ci chiacchiero un po’.
Anche il forte di Amber è pieno di venditori. Salire le scale che ci porteranno sul dorso dell’elefante è un’impresa. Sono attaccati a noi. Non ci lasciano respirare. Seguono la scia dei nostri piedi e salgono con noi. Ci aspetteranno alla nostra discesa. Per qualche minuto c’è silenzio. Quel movimento oscillante ricorda una barca, ma siamo sul dorso di un elefante. A volte sembra arrancare e la salita è così ripida che con tutto il suo peso sembra potersi ribaltare da un momento all’altro. Anche il forte di Amber ci conduce in un tempo esotico, quando c’erano fesre e questo bastava a colmare i piaceri della vita. Un piccolo giardino ben curato e tutti quegli specchi ben incastonati. Le candele che si riflettono e creano giochi di luce. I drappi e le sete creano un paesaggio da Le mille e una notte. Il cielo ora è di un azzurro accecante. Le mura sul pendio ricordano la muraglia cinese. Il forte si innalza con i suoi alti gradini. Ed il giallo delle sue mura acceca a contatto con il sole. Usciamo e di nuovo quella folla che ti accerchia lasciandoti senza respiro. Quelle mani tese. Tutte uguali. Saliti sulle gip quelle mani ci seguono. Si aggrappano. Basta guardare. Basta rispondere. Ci seguono in cerca di un altro sguardo. Si aggrappano fino a che possono, fino ad allontanarsi metri e metri pur di venderti qualcosa. Alla fine cedo ad uno strumento musicale che mi tormenterà per tutto il viaggio del ritorno con le sue dimensioni fuori misura.
Si avvicina intanto quell’ultima serata indiana. Ne abbiamo un assaggio la notte trascorsa in un albergo Taj, una residenza di Maharaja. Guardo le marionette che si muovono e ballano. Sono grandi. Le storie parlano di tempi antichi e di cammelli. Tutto sembra tingersi di un rosso scuro. È buio, ma l’aria è affascinante. Quegli uomini col turbante. Quella pelle scura che si confonde nella notte. Notte che trascorre nel peggiore dei modi. Il caldo a volte è soffocante. Il sapore dell’india esplode in questa notte di un afoso maggio. Tutto sembra presagire il fascino di indossare quei colori tipicamente indiani. Una donna mi veste. Mi sembra di essere tornata l tempo dell’infanzia, quando qualcuno pensava a vestirmi. Mi sento come un manichino impotente, imbarazzata sotto quelle mani così veloci. L’abito è fresco. Mi sembra di rubare un’identità. Per una notte viviamo la magia di una notte antica. I salotti così ricchi di pietre preziose. I colori vivaci fanno male agli occhi. Prima l’emozione di raggiungere quel palazzo in mezzo ad un lago d’acqua. Poi il brivido di camminare nel buio e ritrovarsi come in un film. La strada dissestata non lasciava presagire nulla di tutto questo. La musica, le luci, i salotti, i balli tipici. E poi i fuochi. Ora sembriamo indiani. Anche se i nostri visi pallidi tradiscono la nostra origine. Il tempo è trascorso troppo in fretta. Domani si riparte. Per un attimo ho l’istinto di piangere. Non voglio lasciare l’India. Voglio continuare ad osservare, ridere, meravigliarmi, intristirmi. Voglio conoscere la cultura, incontrare volti, toccare mani, incrociare sguardi,rubare storie, scoprire antichi splendori. E invece è già ora di tornare a casa. La malinconia mi culla tra le sue bracci. Guardo Anil, e la sua voce mi parla ancora dell’india, mi fa scoprire una nuova saggezza, mi incoraggia ad osservare, mi conduce per mano in un mondo diverso. Guardo Yoghi, che con il suo sorriso ci ha sempre tenuti allegri, senza mai abbandonarci con la sua giovane pazienza. Guardo quel ragazzo al fianco dell’autista. Non ho potuto mai assaggiare la sua voce. Sempre dietro il vetro. In silenzio. Cerco di incontrare il suo sguardo per dirgli: Grazie, indiano. Grazie, per la tua mano sempre presente. Grazie, per la tua gentilezza. Grazie, per il tuo rispetto. E guardo i miei compagni di viaggio, all’inizio sconosciuti ed ora così vicini. Vorrei dirvi di rimanere qui con me, ancora un po’, per continuare questo viaggio così breve ed intenso. Ma non posso. È ora di ritornare a casa.
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http://blog.evolutiontravel.net/
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